Il Festival di Sanremo sta al Bel Paese, come il Superbowl agli Stati Uniti. Sono tra i pochi eventi in grado di rallentare il metabolismo di una nazione intera. Tutto sembra muoversi a velocità ridotta, i media coprono l’evento vivisezionandone ogni aspetto, le tv gongolano, i pubblicitari festeggiano, gli inserzionisti plaudono.
Non seguo molto il Festival, ne ho visti piccoli spezzoni in tv, ma so tutto. O quasi. Il Festival, per una settimana, è in ogni cosa, dalle bacheche social, ai discorsi della gente sulla metro. L’aspetto panteistico di Sanremo è ciò che più mi affascina. Non sai, forse non vorresti nemmeno sapere, eppure sai.
Stamattina leggo che ha vinto un giovane italo egiziano. Lo hanno votato in massa, esperti, pubblico in sala e pubblico a casa. Bene. Però ora sarei felice, se qualche istituto di ricerca, magari quelli specializzati in flussi elettorali, riuscisse a dirmi quanti di coloro che hanno votato ieri questo ragazzo, hanno già votato o sono pronti a votare Salvini Matteo. Quello che delle felpe, dell’hastag #primaglitaliani.
Da un lato c’è la realtà: un ragazzo, figlio di immigrati del nord Africa, è la nuova Voice of Italy. Dall’altro, la percezione della stessa: la paura dello straniero, dell’invasione islamica e la negazione dello ius soli come tutela della nostra identità nazionale.
Il corto circuito è evidente. Claudio Bisio, nella sua ultima apparizione sanremese, prima di questa, come ospite disse: “Il problema della politica non sono gli eletti, ma gli elettori“.
Ci sono ancora comici dei quali potersi fidare.
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