Sì, lo so, non si dice che è valdese e ai fratelli Poët scappano pure le parolacce. Lo so che non bevono il vermouth e non si capisce che siamo a ridosso degli anni in cui l’automobile stava per uccidere la cavalleria (leggete questo, è bellissimo). Non si respira nemmeno l’ansia della Torino che non è più capitale del Regno, etc. etc.
Oh raga, è una serie tv di Netflix, non un Master della Bocconi.
Fatta l’inutile premessa, devo dire che in Grøenlandia la società che ha curato la produzione esecutiva, hanno fatto un buon lavoro. Pare che sia stato gradito anche al di fuori dei patrii confini. Bravi.
Cosa mi è piaciuto de “La legge di Lidia Poët”, miniserie in sei puntate uscita il 15 febbraio sulla più importante piattaforma di video on demand del globo?
Prima di tutto mi ha fatto conoscere una storia vera della quale ignoravo l’esistenza, e già per questa ragione, Vostro Onore, la mia arringa potrebbe terminare qui.
Poi: ho apprezzato la fotografia, le musiche (“Peaky Blinders” ha varcato un confine, non si torna più indietro), il tono spesso ironico dei dialoghi, la scelta degli attori, la scenografia, i costumi, le location.
Per Torino trattasi di uno spottone planetario: bene ha fatto il Comune a metterci la firma e la Film Commission a farsi in quattro per la produzione. Il cinema è industria e Torino è la città del cinema.
Sì, è vero, NON È bello come Peaky Blinders, ma cari miei, QUASI TUTTE le serie tv non sono belle come la saga della Famiglia Shelby, quindi facciamocene una ragione.
La prima puntata di Lidia Poët, secondo me, parte con il freno a mano tirato, poi cresce e cresce bene fino alla fine. Sei puntate che scorrono a buon ritmo. Ecco forse avrei lavorato di più sul montaggio, a me piace quando i tagli sono velocissimi, ma so anche quanto costi girare e perdere giorni in post produzione per ottenere quel risultato.
Le scene di nudo (comunque garbate) sono indispensabili? Non lo so, un tempo si diceva che “la scena della doccia” era indispensabile. Un tempo, appunto. Colpisce la citazione (ben riuscita) di “Eyes Wide Shut” nella puntata numero 5.
Gli omicidi da risolvere, che sono il cuore del racconto, hanno intrighi che reggono e il pericolo di trasformare Lidia Poët in Jessica Fletcher mi sembra scongiurato. Si viaggia bene dentro la macchina della giustizia sabauda, ancora molto classista, tecnologicamente arretrata, in cui l’intuito femminile scardina le false certezze del sistema. E restituisce almeno la verità giuridica.
Due dettagli: molti attori hanno occhi azzurro cielo. Un caso? E Lidia Pöet cambia orecchini in ogni scena (inutile dire che questo dettaglio non l’ho colto io).
Gli attori sono bravi, alcuni bravissimi, però, porcaccia la miseria: perché a tratti li fate biascicare? La parola va detta non sussurrata. È una serie tv, mannaggia a voi. Posso ogni dieci minuti chiedere a mia moglie? “Cos’ha detto?” e ricevere in risposta un laconico: “Non ho capito nemmeno io. Torna indietro e riascoltiamo“.
Questa abitudine televisiva alla biascicazione (spesso romanizzata) è insopportabile. A me Giallini (per esempio), nei panni di Rocco Schiavone, che a tratti parla come Francesco Totti fa girare le balle. Che scelta è?
Sul set (sì frequentavo i set, dirigevo le fiction, quelle di serie C2, ma vabbè), il fonico a fine ciak mi avrebbe detto (anzi: urlato): “Per me non è buona! Scartoooo”. Ecco, fossimo sul set di Boris …, ma siamo su Netflix.
Fatta salva questa sciocchezza generalizzata, per “La legge di Lidia Poët” il 7+ arriva spontaneo.
Ci sarà di sicuro una seconda stagione e come dice Caparezza “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista.”
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