Ho aperto il mio profilo Facebook esattamente quindici anni fa e da allora non è passata settimana nella quale non abbia incrociato un post, un articolo, un video dell’esperto di turno (quasi sempre maschio alfa) che affermi: “Adesso vi spiego come funzionano i social network”. Segue filippica ricca di inglesismi e neologismi digitali che hanno lo scopo precipuo di stabilire due punti fermi: 1. lui è il futuro della comunicazione, 2. tu sei già nel sacchetto dell’umido.
In questi giorni, a seguito della tragedia di Casal Palocco, che ha messo al centro del dibattito uno degli asset più amati di Google, cioè YouTube (nato nel 2005 con il più profetico dei claim: “broadcast yourself”), gli esperti che mi/ci spiegano come funzionano davvero i social network sono diventati più numerosi degli acari del mio tappeto in salotto.
Intendiamoci, nove volte su dieci sono esperti veri e ciò che scrivono o dicono (anche se quasi sempre con prosopopea insopportabile) è più che credibile. Però ogni volta che li leggo o ascolto (e li leggo o ascolto da parecchio), mi torna in mente la barzelletta dell’asino e del maiale.
C’è un maiale che si rivolge a un ciuco dicendogli cose tipo “fai davvero una brutta vita, ti caricano di pesi impossibili, ti bastonano per farti camminare, sei l’icona dell’ignoranza, il tuo raglio non si può sentire”, etc. etc..
L’asino incassa per un po’, poi freddamente si gira verso il maiale e gli dice: “Non sei quello dell’anno scorso vero?”.
Ecco, a me il dotto esperto di social media che parla metà in italiano (con accento milanese da web agency) e metà in digit-english, ricorda un po’ quel maiale. Che dice quasi sempre cose vere o verosimili, ma dura poco. Molto poco. Di Aranzulla, per dire uno che ha capito che quelli come me vanno aiutati e non presi per i fondelli, ce n’è uno solo. Non a caso.
Del mondo digitale, io che ho iniziato a scrivere con la carta carbone su delle vecchie macchine da scrivere usate con i tasti che saltavano via come proiettili, non ho mai capito una mazza.
La prima volta che qualcuno ha provato a spiegarmi cosa fosse la tecnologia digitale, credo fosse la seconda metà degli Anni Novanta, mi è uscito il sangue dal naso. Come se davanti avessi un buco nero incomprensibile, un futuro brutto e cattivo pronto a divorarmi. A pensarci bene, non ero lontanissimo dalla realtà.
Riguardo al digitale, però, una cosa mi è diventata rapidamente chiara: ciò che vale oggi, tra sei mesi è preistoria.
La prima stagione di Black Mirror è del 2011. Quando la vidi mi mise i brividi e provocò incubi, ma oggi a rivederla fa sorridere. È già vintage.
Se siamo dove siamo, cioè improvvisamente precipitati tra ChatGPT e MidJourney a portata di smartphone è perchè gli esperti dell’internet e dei social, alla fine, sono esperti così così. Vivono alla giornata come tutti noi poveri cristi, solo che sono nati quando le macchine da scrivere erano già tutte in discarica da un pezzo.
Succede anche a Wall Street, per dire. Pletore di giovani traders della new economy, bravi a giocare e perdere in borsa con i soldi degli altri, che però fanno soldi per sé grazie alle soffiate sottobanco. Alla faccia degli algoritmi.
Del resto, anche questo lo abbiamo capito persino noi boomer, se vuoi che un tuo contenuto venga valorizzato dai motori di ricerca del world wide web, non devi essere la reincarnazione di Steve Job, devi pagare. Più paghi, più vali. Non esattamente una novità.
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