Sai che è così che deve essere, lo accetti, o almeno ci provi. Intanto l’amarezza si accumula. Sedimenta piano, ma sedimenta.
Puoi cercare di ignorarla, di usare dosi massive di autoironia, di giocare con le parole dette e scritte, ma alla fine sai che sono tutte solo e semplicemente balle che devi raccontare a te stesso, quotidianamente, per accettare una realtà che non ti piace, che non volevi, che non hai fatto nulla per meritare (forse), ma che l’inatteso, arriva. E, quando arriva, non puoi fare nulla per evitarlo.
Fino a un anno fa il distanziamento sociale era visto con sospetto, le mascherine chirurgiche considerate una fissazione da turista nipponico, il gel un prodotto esclusivo per i capelli degli eccentrici del sabato sera. Solo 12 mesi fa.
Nel corso di questo primo anno pandemico, ad oggi, in Italia, per il virus, sono morte 100 mila persone (1 ogni 600 abitanti). Tutti noi abbiamo un parente, un amico, un “congiunto” (termine che ho imparato a detestare), che ha fatto i conti con un lutto causato dal Covid19.
E poi c’è chi ha visto morire il proprio lavoro, in parte o del tutto. Quanti? Nessuno ha dati definitivi, la tempesta è in corso. A dicembre l’Istat considerava a rischio 4 imprese su 10. E la seconda ondata non era ancora entrata nel computo. Ma anche in questo caso vale l’esperienza personale: chi di noi non conosce qualcuno al quale il Covid19 non ha azzerato il reddito? Az-ze-ra-to.
Sono fortunato. Perchè sono in salute, perchè i miei cari lo sono, perchè lavoro, perchè il mio reddito è addirittura cresciuto, perchè sono sì in mare aperto e nuoto, ma ho le pinne, la muta, il respiratore e un salvagente. Mentre attorno a me si affoga.
Ieri, come insegnante, mi sono anche messo in lista per la vaccinazione. La supplenza in una scuola primaria, pur nella precarietà, diventa privilegio, opportunità, possibilità di mettersi al riparo. Un altro colpo di fortuna.
Però, pur facendo tesoro e ringraziando tutti gli dei disponibili sul mercato delle religioni, questo lungo cammino nel tunnel, iniziato nel febbraio scorso, è diventato “troppo”. Troppo tempo senza sentire la stretta di una mano, un abbraccio con i miei amici, una serata a teatro , un viaggio con chi ami, una sudata in palestra. Troppo tempo senza una di quelle mille cose che ho sempre fatto e vissuto come un gesto naturale. Come respirare.
Ecco, mettiamola così: queste piccole-grandi privazioni necessarie mi stanno accorciando il respiro. È ansia che cresce e diventa deficit respiratorio. Manca un pezzo, manca quel pezzo che permette di dare senso alla socialità, alla condivisione, alla solidarietà, alla festa. Non c’è video call in grado di dare aria ai polmoni.
Potrebbe andare peggio? Sì. Potrebbe piovere. Lo so, ma non mi consola. Pare che un nuovo lockdown sia alle porte, che le varianti del virus spariglino le carte, che la produzione dei vaccini non riesca a decollare.
Ci vorrà tempo. Già, ma quanto tempo? E quanto fiato avremo ancora nei polmoni quando avremo davvero percorso tutto il tunnel? E chi sarà arrivato sano e salvo alla meta, quanto e come sarà cambiato?
Non voglio interiorizzare il distanziamento sociale, non voglio pensare che si possa vivere bene anche stando da soli, che non si abbia bisogno del vicino di casa, dell’amico d’infanzia, del cugino di secondo grado, del compagno di scuola che non vedi dal 1982, dello conosciuto che incroci sul tram, della commessa che saluti distrattamente uscendo dal negozio. Voglio carne e ossa, odori, musica, risate, lacrime. E non le voglio digitali.
Non voglio interiorizzare che la vita di prima non fosse in fondo questo granché e che questa macedonia di gel e zoom abbia davvero senso. Perchè non ce l’ha.
Grazie Sante, come sempre le tue parole sanno esprimere al meglio quello che tanti di noi vivono …sei il nostro cuore parlante…ti abbraccio come sempre.
Grazie a te Stefania, tanto. E ricambio il tuo abbraccio!!!
Ce la faremo e tutto questo avrà un senso grazie anche a chi, come te, ci parla di ciò che proviamo e sentiamo.. e ci fa sentire meno soli
Grazie Sante
Grazie a te Irene! La fatica che si condivide è un po’ meno faticosa 🙂 Noi “pinguini” lo sappiamo 🙂