La storia di Zelensky, raccontata in un bellissimo podcast di Chora Media, “Diventare Zelensky”, firmato da Micol Flammini e Paola Peduzzi, andrebbe ascoltato con attenzione. Dura complessivamente solo un’ora.
Narra senza alcuna enfasi la strana parabola di un ragazzo ebreo di provincia, laureato in giurisprudenza, che non vuole fare l’avvocato, ma il comico e che per un corto circuito senza eguali, la tv porta sul gradino più alto del potere a Kiev. C’è tutto in quei 60 minuti: l’ascesa, le ombre, gli scandali e la guerra.
In questi primi 50 giorni di invasione russa dell’Ucraina e di dibattito qui, uno degli aspetti che più mi ha colpito e deluso è il dileggio con il quale le tastiere italiane commentano il tentativo di un uomo che, diventato presidente quasi per caso di una nazione indipendente da solo un quarto di secolo, con una democrazia per forza di cose debole, un PIL ridicolo, un’oligarchia potentissima e un nemico giurato alle porte, cerca di far sopravvivere, tra l’altro con l’evidente sostegno della sua gente, il sogno di un futuro il più possibile diverso dal passato recente (e meno recente).
Forse facciamo ormai troppa fatica a metterci nei panni altrui. Noi inoltre non amiamo l’Heimat, la Patria. Sono idee lontane, che non ci appartengono strutturalmente. Vanno bene solo sui libri di storia o di filosofia. Prima della Patria c’è la nostra famiglia (l’unica Heimat che riconosciamo), al massimo il clan.
Oltre quel confine di sangue non c’è nessuno per il quale valga la pena rischiare le proprie certezze.
O forse, quando invochiamo genericamente la pace (per noi, ovviamente) o invitiamo gli ucraini alla resa (“Tanto hanno già perso”), pur sapendo chi è il loro nemico sul campo e quale sarebbe il loro destino, siamo solo anche noi dei lupi che fingono di essere agnelli.
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