Quando Enzo Tortora pronunciò quelle parole in diretta Tv (Dove eravamo rimasti?), ero già grandicello. Era il 20 febbraio del 1987 e uno dei volti più popolari della televisione italiana tornava a condurre Portobello (un pezzo di storia patria), dopo una vicenda giudiziaria che nemmeno Kafka nelle sue migliori giornate. Da allora è un riflesso condizionato: “Dove eravamo rimasti?” uguale Enzo Tortora, uguale sfiga.
Per cui: noi, dove eravamo rimasti? Era il 4 maggio 2020 e il carcere duro era ufficialmente finito. Eravamo tutti liberi sulla parola, grazie a una apparente ritirata pandemica estiva. È andata male, si torna alla libertà vigilata. Con l’autunno cadono le foglie e un sacco di altre cose.
Lo stato d’animo è quello che è. Sono sconfortato. Non ho voglia di ascoltare i virologi che sono tornati in massa in tv, non ho voglia di litigare su Facebook con i NoMax (che poi sono versione rancida dei NoVax), non ho voglia di analizzare i numeri, grafici, prospetti che tante donne e uomini di scienza in rete stanno lodevolmente presentando per aiutarci a capire. Li ringrazio, ma non serve. Sono già pronto al peggio, ho capito che andrà come deve andare. Cioè: male.
Del resto cosa posso fare? Ho scaricato Immuni, indosso la mascherina, mi disinfetto le mani, evito gli assembramenti e i mezzi pubblici. Ho messo in stand by le ipotesi, i dubbi, i tentativi di trovare il bandolo della matassa, non mi aiuta. Mi deprime. Non so e non voglio sapere perchè i neozelandesi hanno fermato il virus e gli spagnoli se lo ritrovano nelle tapas. Tanto vivo qui e ora, non sono un Maori e non mangio paella. E non parlatemi di complotti perchè sbrocco.
Quindi proverò a vivere la miglior libertà vigilata possibile in attesa del prossimo DCPM (l’acronimo più triste del nuovo secolo), che mi comunicherà quale altro pezzo di libertà dovrò immolare per il bene comune.
Paese and Love a tutti.
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