Quando ero prima un ragazzo e poi un giovane uomo, avrei voluto dirti più volte: “Ti voglio bene”, ma avrei dovuto non farmi vincere da una malcelata vergogna, da un senso del pudore inutile e dannoso, da una rigidità della manifestazione degli affetti che non aveva ragione d’essere.
Non ne sono stato capace papà, mi spiace. Riconoscerlo ora non serve a molto, ma a qualcosa sì. Serve a osservare i 54 anni passati insieme con uno sguardo nuovo. Ora che sei morto non sei “più distante”, per assurdo sei “più presente”. Ti ricordo ogni giorno. Ti ritrovo nei gesti, nelle scelte, nelle movenze. “Papà, assomigli sempre di più al nonno”, mi dicono i tuoi nipoti. Il tono è canzonatorio (a proposito, solo da te ho sentito utilizzare il verbo “canzonare”), ma in verità per me è motivo di orgoglio allo stato purissimo. Vorrei essere come te caro Rocco: idealista fino allo sfinimento, onesto fino al mai visto, generoso fino all’autolesionismo. Ricordi Hector Cuper, l’Hombre Vertical? Dai papà, quell’allenatore argentino dell’Inter che da solo sosteneva il morale di tutta la squadra anche nei momenti bui? Tu eri così Rocco: il metronomo della famiglia, la bussola nelle tempeste, il capo indiscusso della tribù e non hai idea di quanto oggi mi manchi la tua autorevolezza.
Non ho mai pensato che la tua morte sia stata ingiusta (almeno non nei tempi, ma lo è stata certamente nei modi), ma ho da subito capito che l’eredità etica e morale che ci e mi hai lasciato sarebbe stata pesante.
Ho preso atto velocemente di non essere e di non poter mai essere come te, però caro papà, sappi che essere tuo figlio è sempre stato ed è bellissimo. Mi è successo e mi succederà ancora di dovermi presentare a qualcuno dicendo “sono il figlio di Rocco”, e non hai idea di quanto mi piaccia, di quanto riesca ad allargare il petto con fierezza. Yes I am. Mi succedeva anche quando eri vivo papà e avrei dovuto dirti anche questo.
Il tempo non è sempre così galantuomo.
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