Giovedì 31 Gennaio 2019
Sono quasi a casa, tra qualche ora atterrerò a Caselle, via Parigi. Abbiamo lasciato Niamey da un paio d’ore e con un ritardo tale sull’orario previsto da farci perdere sicuramente la coincidenza per Torino. L’aereo arrivava dal Togo perchè per il personale dell’Air France fare base in Niger è troppo pericoloso. Quindi il volo Niamey – Parigi inizia a Lomè. Mica fessi, i francesi volanti.
Sara ha una tosse che non la molla (aver respirarato ossigeno misto a sabbia per una settimana non ha aiutato) e Marco dorme già il sonno dei giusti. Siamo stanchi, decisamente stanchi. Queste ore di viaggio serviranno a far sedimentare i primi ricordi che già accavallano.
Il Boing 747-400 dell’ AirFrance è pieno a uovo. Con noi ci sono una ventina di profughi. Sembrano eritrei. Seduto al mio posto, quando sono salito, c’era un uomo, spaesato come solo chi lascia la propria terra per andare non si sa bene dove, può essere. Accanto a lui c’erano tre bambini e una donna, l’unica che sembrava avere il polso della situazione. Padre e madre erano di età indefinibile, i bambini tra asilo nido e scuola materna. L’uomo non parlava null’altro che la sua lingua d’origine ed ho provato, nel bailamme classico di un aereo che imbarca 400 persone, di notte, in Africa, a spiegargli che avevano sbagliato posto, che doveva andare là dove il suo biglietto indicava, cioè dieci file più indietro.
Mi guardava con occhi grandi e interrogativi. Io mi sentivo piccolo e avevo una gran voglia di abbracciarlo e dirgli di stare tranquillo, che andava tutto bene, che non c’era motivo di preoccuparsi. Stava lasciando il suo continente, dopo avere lasciato il suo Paese, forse l’Eritrea, per andare là dove, gli hanno promesso, avrebbe trovato pace e lavoro. Sorrideva appena, cercava di capire, confabulava con la donna (che aveva capito, ma l’uomo bianco è sempre un po’ quello con la lingua biforcuta, meglio tergiversare. Datele torto, se potete).
Quando è arrivata la hostess ha risolto tutto con gesti rapidi e inequivocabili, tipici di chi è perfettamente a suo agio nella routine del bailamme fatto da 400 passeggeri assonnati e imbarcati nel cuore dell’Africa sub sahariana. I 5 profughi sono andati dieci file indietro. Insieme agli altri.
I profughi dietro, noi davanti. A me ha preso una specie di ansia mista a vergogna. Siamo così diversi da dover essere in qualche modo separati? Passeggeri diversi, uomini diversi, persone diverse. Anche per una compagnia aerea. Lo so, è per la logistica, per praticità, però a me ha fatto specie uguale.
Mettiamola così, per tacitarmi la coscienza, dico che loro almeno hanno vinto il biglietto della lotteria (oltre a quello dell’aereo), sono stati riconosciuti profughi dall’ UNHCR e collocati da qualche parte sulla cartina europea. Bene. Allora perchè la mia coscienza non si sente più tranquilla?
Intanto si vola verso nord, verso la nuova Terra Promessa per i profughi del nuovo millennio. Io torno a casa.
In questi dieci giorni nonostante la distanza (reale, mentale, culturale, ambientale, fisica, temporale), gli echi della civiltà sono giunti chiari e distinti fino in Niger. Usavamo poco i social, più per precauzione che per mancanza di possibilità di connessione. Meno eravamo geolocalizzati meglio era. Non sarebbe mai successo nulla, ma prevenire, come si usa dire anche qui, è sempre meglio che curare. Come rapito sarei stato un disastro, meglio evitare. Di italiani rapiti in Niger dagli jihadisti e non ancora tornati a casa ce n’è abbastanza.
Nonostante il parziale social detox, ho saputo che durante l’assenza dal patrio suolo, abbiamo dichiarato guerra alla Francia con l’algido Alessandro Di Battista, continuato a trattare i migranti come pacchi postali, derubricato a bande mafiose le Organizzazioni Non Governative in blocco, e mandato un simpatico nonnino, dal marcato accento pugliese, a rappresentare l’Italia all’UNESCO.
Bentornato a me.
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