La scena dura una trentina di secondi, ripresa con lo smartphone (ovviamente). Ad avere schiacciato il tasto video è una signora che assiste a una partita di basket femminile. Un campionato giovanile, under 18. Siamo in Romagna. La signora in questione sbotta all’improvviso urlando “scimmia” a una giovane giocatrice nera che si trova in campo. La ragazza sente, si disinteressa dell’azione, smette di giocare, si avvicina rapidamente alla signora che prova ancora a fare la furbetta, per poi arrendersi a un patetico “Non era detto per il senso del razzismo. Mi è uscito“. Sipario. Le immagini sono sfocate e le voci distorte, ma è tutto chiarissimo lo stesso.
I GENITORI E LO SPORT GIOVANILE SONO UNA PIAGA D’EGITTO
Chiunque abbia avuto o abbia la ventura di avere una figlia o un figlio che abbia praticato o pratichi sport a livello giovanile (calcio, basket, pallavolo in primis), sa perfettamente che i genitori sugli spalti (tutti con un’età che oscilla tra i trenta e i quarantacinque anni) sono una piaga d’Egitto, scatena risse, provoca spaccature interne ai clubs. Gli allenatori li odiano e i figli se ne vergognano. Ho accompagnato per anni mio figlio in giro per il Piemonte a giocare a basket e ho visto cose che nemmeno Roy Batty… altro che le navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
Però, ci sono dei però che mi riguardano.
Quando andavo allo stadio con i miei figli, a vedere il Toro di Ciminelli e del primo Cairo, urlavo cose di cui oggi, sul limitare dei sessanta, mi vergogno assai. Verso gli avversari, in campo e sugli spalti, verso la coniuge dell’arbitro, verso l’arbitro stesso e via degenerando. Certo, sapevo che nessuno mi avrebbe ripreso con uno smartphone, che ero in curva circondato da migliaia di altri bipedi sull’orlo di una crisi sportiva di nervi, che il mio capo non avrebbe visto, che i miei clienti mai avrebbero immaginato, che in fondo non credevo davvero a ciò che stavo dicendo. E su quest’ultimo punto sono piuttosto certo. Però ero uno spettacolo indecoroso. E pubblico. Ci fosse stato uno smartphone a vigilare a un metro da me forse (e sottolineo forse), avrei smussato gli eccessi. O pagato a caro prezzo la mia idiozia.
UN TENTATIVO DI REDENZIONE
Sempre in quegli anni, in un contesto diverso, al palazzetto dello sport di Collegno, mentre assistevo con mio figlio (già aspirante asso del minibasket) a una partita dell’Auxilium Torino (in serie C), gli ultras nostrani hanno iniziato a insultare pesantemente un giocatore dell’altra squadra. Molto pesantemente. Persino il sottoscritto era turbato e mio figlio chiedeva lumi su quanto stava ascoltando. Bofonchiai cose.
A fine partita, tenendo per mano l’erede maschio, sono andato in mezzo agli ultras (erano un paio di decine, non moltitudini) e ho detto loro che mi guardavano interrogativi: “Porto mio figlio qui e non allo stadio perchè dicono che qui il tifo sia più civile. Vergognatevi tutti.” Mi sono girato e confidando nella presenza del piccolo Altizio accanto mi sono allontanato, sperando di non sentire alcuna sprangata piovermi dal cielo. Non ho idea di cosa abbia pensato mio figlio (immagino qualcosa tipo: “Mio padre allo stadio è Attila e al palasport sembra il cugino di Gandhi“), so però che da allora ho iniziato a fare meglio i conti con il me stesso da gradinata. Era iniziato un parziale cammino di redenzione.
LA MORALE
Gli smartphone, oggetto di natura certamente satanica, possono quindi fare anche cose buone. Se non riusciamo a maturare in autonomia le buone pratiche , ci penserà la pubblica indignazione via social.
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