Questa mattina sono andato a un funerale. Ormai sono queste e poche altre le ragioni che mi portano a varcare l’ingresso di una chiesa.
A celebrare il rito funebre c’era un bravo prete, che conosco da quando ero poco più di un ragazzino. Uno di quei preti che, per quanto tu ti senta lontano da tutto ciò che lui rappresenta, hanno la capacità di offrirti parole di senso, di riconciliarti con un passato che in quel mondo appeso a un atto di fede, credevi fermamente.
A un certo punto della sua breve omelia, nel ricordare la persona scomparsa, ha detto tre parole tanto semplici quanto definitive: “Nulla andrà perduto.” E poi: degli incontri, degli affetti, delle cose fatte, delle fatiche per sanare errori, delle feste, dei sorrisi e delle lacrime, di tutto ciò nulla andrà perduto.
La vita non è mai perduta del tutto, anche quando finisce, e nulla c’entra la presunta possibilità di una vita eterna. O meglio: c’entra per chi ci crede, ma per gli altri, per me, è diverso. Alla luce di quelle tre parole è ciò che lasciamo a chi resta dopo di noi il valore ultimo di ciò che siamo stati e abbiamo fatto. Nulla, quindi, verrà perduto.
E allora? Allora viviamo appieno ciò che ogni giorno il caso, il fato o la provvidenza, chiamatela come volete, ci regalano. La morte è l’ultimo pezzo della vita, e vivere gli anni che ancora mi restano da percorrere senza amare, progettare il futuro, bere con gli amici, parlare fino alla sfinimento con figli, scoprire luoghi e sapori nuovi, ballare quella musica che ti fa stare bene, lavorare con leggerezza, affrontare le difficoltà condividendole, sarebbe pura e semplice follia. Vita che muore anche se ancora in vita. Inaccettabile.
Nulla andrà perduto, nulla è inutile. Ho la fortuna di non essere in fuga da una guerra, di essere in salute, di essere circondato da affetto vero. È importante che qualcuno ogni tanto me lo ricordi. E sono bastate tre parole.
Ho ancora molto da fare e da non perdere.
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