LIBRARSI #2 – Oggi parliamo di guerra

LIBRARSI è una rubrica del mensile MISSIONI CONSOLATA, che curo a partire dall’ottobre del 2020. La rivista, dal 1899, racconta la vita dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e getta uno sguardo diverso sulle cose dimenticate del mondo. 

Oggi parliamo di guerra e lo facciamo attraverso le parole di tre autori diversissimi tra loro. Tre modi diversi di ricordare, raccontare e vivere la tragedia della guerra, che forse, hanno in comune un obiettivo: esorcizzarla.

Iniziamo da Andrea Pennacchi, padovano classe 1969. Attore e scrittore di teatro. Il grande pubblico a imparato a conoscerlo grazie al suo intervento settimanale a Propagada Live” su La7 (l’ex “Gazebo” di Rai3). A settembre è uscito, con la milanese People, “La guerra dei Bepi”. Quindici euro molto ben spesi. Si tratta di un testo teatrale adattato, ma non troppo, alla narrativa. Pennacchi viaggia attraverso tre guerre: la Prima, la Seconda Guerra Mondiale e poi fa un salto a Mogadiscio, il 2 luglio del 1993. Dall’aprile del 1945 l’esercito italiano non era più stato coinvolto in un uno scontro bellico. L’incantesimo si rompe nell’estate di ventotto anni fa al Check Point Pasta.

I soldati italiani erano impegnati nell’operazione UNOSOM. Andrea Pennacchi faceva parte di quel contingente militare. Volontario, non per caso. Suo nonno, da tutti chiamato Bepi, aveva combattuto nelle trincee del Carso, suo padre, nome di battaglia “Bepi” aveva combattuto tra le fila partigiane. Arrestato, deportato, sopravvissuto in qualche modo ai lager. Lui, nipote e figlio di Bepi, va alla ricerca delle sue radici nel modo più complesso, pericoloso, contraddittorio, ma vero: va in guerra.

Quando ho deciso di fare il servizio militare, ero desideroso anche io di far parte di quell’epos che aveva attraversato la storia della mia famiglia, volevo in un certo senso essere anche io un Bepi”.

Il testo è godibile, forte, veneto, divertente, tragico, serio, comico, tagliente, proprio come il Pennacchi che abbiamo conosciuto in TV. Non vi deluderà.

Andrea Roccioletti, il secondo autore di oggi, torinese classe 1979 è un libraio, ma anche (forse varrebbe la pena dire “soprattutto”) un art performer di gran talento. Tra i suoi studi anche la Scuola di Applicazione dell’Esercito, come civile. Ramo peacekeeping. 

Nel giugno del 2019 ha scritto per Autori-Riuniti un romanzo breve dal titolo: Admira e Bosko. Sarajevo 1993, 6€. Ancora il 1993, ma due mesi prima dei fatti di Mogadiscio. La storia di Admira Ismic e Bosko Brkic è anch’essa una storia vera e tragica, di cui le cronache si sono molto occupate. A rendere originale il lavoro di Roccioletti non è solo la scelta dello stile, il romanzo, ma averlo scritto insieme a  una giovane scrittrice di origine tunisina, Miriam Thari. Il mondo cristiano ortodosso di un ragazzo e la fede islamica di una ragazza scardinano le logiche nuove imposte dall’assedio di Sarajevo. Amore e guerra che lottano e l’amore che soccombe. In guerra, soccombe. La domanda che tutti ci siamo fatti allora era “Com’è possibile stia accadendo a pochi chilometri da qui?”. Il libro di Andrea Roccioletti, il romanzo che attraversa le vite innamorate di due ragazzi dell’ex Jugoslavia, ha sempre sotto traccia una risposta: “Non solo è stato possibile, ma potrebbe esserlo ancora. Magari non più a Sarajevo, magari più vicino a noi. Magari a casa nostra”.

Nell’incipit c’è tutta la capacità dell’autore di prendere per mano il lettore: “Adesso. Io sono l’assassino. Sono certo che leggerai le prossime righe con alcune aspettative. Forse ti aspetti che io ti racconti il mio punto di vista (…) che ti racconti come si diventa un assassino (…) così che tu posso trarre qualche lezione dalla mia esistenza; ma essa è al tuo servizio tanto poco quanto lo è stata al mio, perchè sul male inflitto e quello subito pennelliamo una doratura di significato che niente dura alla prova del tempo”.

Andrea Roccioletti è un nome che dovete appuntarvi e seguire. Non lo trovate sui social, ma ha un sito: www.roccioletti.com .

Arriviamo così ad Andrea Astori, bergamasco, docente all’Università Cattolica, medico chirurgo specializzato in psichiatria. Anche il suo libro parla di guerra, della guerra mondiale in corso, iniziata nella lontana metropoli di Wuhan, in Cina, all’inizio del 2020, e arrivata in Europa, segnando in modo decisivo le nostre vite. La prima guerra pandemica da molti decenni a questa parte.

Però la chiave di lettura di Astori capovolge lo schema. Già il titolo del libro segna la differenza: “Parole buone” (Edizioni San Paolo, 16€), uscito in novembre. Proprio perchè la pandemia ci ha precipitato in un linguaggio bellico (forse l’unico davvero in grado di dare il giusto peso alla nostra paura), durante il lockdown di marzo-maggio 2020, il prof. Astori e un piccolo, ma tosto gruppo di collaboratori, ha iniziato a cercare, scrivere, raccontare, diffondere #parolebuone (l’hastag ne ha permesso la diffusione sui social), perchè in quelle settimane di vero e proprio smarrimento collettivo, di fronte alle bare, alle ambulanze, agli infermieri stravolti, ai medici che morivano curando, era necessario provare ad accendere una luce di speranza.

Nella prefazione, Luca Rolandi, giornalista e ricercatore storico, scrive: “Non esiste la normalità, il benessere economico che nasconde abissi di dolore psicologico e morale, esiste la tenerezza dell’amore e della solidarietà (…) perchè le Parole Buone aiutano (…) l’uomo a vivere di ciò che sta sopra di lui”.

Le Parole Buone, che nel suo libro Astori riprende e racconta, sono state un’oasi per centinaia di persone barricate in casa La multimedialità messa a punto dal gruppo di lavoro (social, radio, carta stampata, linguaggio dei segni) ne ha permesso la capillarità. 

Quelle parole, nate qualche mese fa, sono ancora drammaticamente attuali. La guerra non è ancora finita. Il libro di Sergio Astori ci aiuterà a superarla.

Articolo pubblicato nel gennaio 2021

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