Quando tornavo da un viaggio in qualche angolo della terra dimenticato da Dio, dove avevo visto cose che forse nemmeno Dio avrebbe saputo spiegare, e provavo a raccontarle, il più delle volte i miei interlocutori annuivano, sorridevano mesti, asserivano, scuotevano il capo, sospiravano contriti, ma glielo si leggeva negli occhi che non capivano. Ci provavano, ma non riuscivano nè a capire e, in fondo, nemmeno a credere.
Del resto chi ero io , che per tutti sono quello strano, originale, iperbolico, eccessivo, per entrare a gamba tesa nella loro quotidianità con i miei racconti di guerra, ingiustizia, fame, morte, malattia? Chi ero io per rompere “la bolla” nella quale viveva (magari perfettamente a suo agio) chi mi stava di fronte?
Oggi la bolla che fa resistenza è la mia. E un po’ me ne vergogno.
Ho amici che in queste settimane sono in ospedale a combattere contro una malattia di cui poco sappiamo, e si prodigano a ricordarmi in ogni modo di stare a casa, di fare attenzione all’igiene, di essere cauto. Ovunque cartelli, spot, messaggi, mi ricordano che devo avere cura di me e delle persone che mi stanno accanto.
Eseguo, quasi scrupolosamente, provo a impegnarmi, ma la bolla resiste. Qualcosa in me fa muro. Venti giorni fa (sembrano passati secoli) ero furioso perchè avevo dovuto rinunciare all’organizzazione di un evento. Non credevo che fossimo di fronte a una minaccia vera, ostentavo anche una certa diffidenza verso alcune notizie. Persino di fronte ai primi casi e ai successivi casini scuotevo la testa. Pandemia? Dai, sù, siamo seri!
Era, è, “la bolla”. La bolla che ti fa da corazza, ma che ti fa perdere di vista la realtà.
A 300 metri da dove sto scrivendo c’è uno degli ospedali torinesi più in fibrillazione per il Covid19, ma da qui sembra tutto come sempre. Tranquillo. Mi affaccio lo vedo ed è un martedì di marzo come altri. Invece non è così. Là dentro proprio in questo momento si lotta e, non di rado, si muore.
Serve uno spillo per far esplodere la bolla. Una volta per tutte.
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